“I Migliori Anni”… come nasce e perché

C’erano anni in cui la notte non era solo un momento della giornata: era un mondo a parte. Gli anni ’90 sono stati questo, per chi li ha vissuti davvero. Un tempo in cui le discoteche erano templi, i DJ sacerdoti, i PR alchimisti della selezione, e il pubblico… beh, il pubblico era l’anima.
Negli anni ’90 vivere la notte significava attraversare un rito collettivo che cominciava ben prima di entrare in un locale. Si partiva il pomeriggio, con le telefonate agli amici per decidere dove andare, ci si preparava con attenzione maniacale, scegliendo l’outfit come un biglietto da visita: non si trattava solo di vestirsi bene, ma di comunicare chi eri. Ogni gruppo aveva il suo stile: c’erano i clubber, con gli occhiali da sole anche a mezzanotte, le camicie aperte e le scarpe da ginnastica bianche immacolate; c’erano i dark, sempre rigorosamente in nero, i raver con le loro felpe enormi e i jeans larghi, e poi i “modaioli”, quelli che venivano dritti dalle boutique del centro.
L’ingresso nei locali era una vera e propria prova iniziatica. Non c’era posto per tutti e lo sapevi. Le porte erano presidiate da personaggi mitici, capaci di decidere in uno sguardo se eri degno o meno. Nessuno si offendeva, faceva parte del gioco. C’era una selezione durissima, ma era anche questo a rendere speciale una serata: se entravi, significava che avevi superato una soglia, eri parte di un’energia collettiva che non si poteva improvvisare.
Una volta dentro, il mondo cambiava. Le luci pulsavano, i bassi spingevano il cuore, la musica ti prendeva e ti portava via. I DJ non erano ancora superstar internazionali, ma dentro quei muri erano semidei. Suonavano solo vinili, mixavano a orecchio, creavano un racconto senza parole in cui ognuno trovava un pezzo di sé. Non c’erano schermi, non c’erano selfie. La gente si guardava, si sfiorava, ballava. Si parlava, si rideva, si flirtava senza filtro. Tutto era più diretto, più reale, più vivo.
Dietro al bancone del bar, i barman erano i veri confidenti della notte. Ti riconoscevano, sapevano cosa bevevi, ti facevano trovare il cocktail pronto. E mentre intorno la pista ribolliva, al banco si creava un’altra dimensione fatta di sguardi complici, di racconti a metà urlati sopra la musica, di piccole pause prima di tuffarsi di nuovo nella bolgia.
E poi c’erano loro, i buttafuori. Figure silenziose ma fondamentali. Non solo sicurezza, ma veri custodi del rituale notturno. Conoscevano tutto e tutti. Ti vedevano arrivare, sapevano se eri da solo o con chi, se avevi già bevuto troppo o se eri “quello della settimana scorsa”. Erano occhi vigili, presenza rassicurante e, all’occorrenza, muro invalicabile.
Ogni locale aveva una sua anima. A Riccione si respirava l’aria internazionale, con club come il Pascià e il Cocoricò che sembravano città nella città. A Milano si alternavano eleganza e underground, tra l’Hollywood e il Magazzini Generali. Roma era eclettica, caotica, intensa. E poi c’erano le serate nei capannoni, le feste nei centri sociali, i rave in mezzo ai campi che partivano la sera e finivano con il sole già alto.
Il tempo, in quegli anni, aveva una forma diversa. Non era lineare. Una serata poteva cominciare a mezzanotte e finire alle dieci del mattino, con la colazione tutti insieme in autogrill, gli occhi gonfi ma il cuore pieno. La notte non era solo ballare: era incontrare persone nuove, scoprire musica che non passava in radio, vedere stili e modi di vivere che sfuggivano alle regole del giorno. Era un grande esperimento sociale, spesso caotico, a volte rischioso, ma sempre autentico.
Non tutto era perfetto, ovviamente. C’erano eccessi, errori, esagerazioni. Ma la sensazione dominante, se ci ripensi oggi, era quella di vivere qualcosa che stava cambiando tutto. Una cultura che nasceva dal basso, che si diffondeva con i flyer stampati in tipografia, con il passaparola, con i dischi che giravano di mano in mano.
E soprattutto c’era un senso di comunità che oggi, spesso, manca. Nessuno andava a ballare solo per farsi vedere. Si andava per esserci. E l’esserci aveva un peso enorme. Non eri un follower, eri parte di un’onda. Ogni weekend era una nuova puntata di una storia che scrivevamo insieme, notte dopo notte.
Quelli erano i migliori anni perché erano veri. Perché erano imperfetti, sì, ma irripetibili. Perché ogni ricordo è fatto di musica, sudore, risate, errori, amori nati alle tre del mattino e finiti all’alba. Perché, anche adesso, a distanza di trent’anni, chi c’era si ricorda tutto. O magari non si ricorda niente, ma sa benissimo come si sentiva.
Ed è questo, alla fine, che resta davvero.
Gli anni 90 sono e resteranno gli anni migliori della musica dance. Sarà perché lì abbiamo vissuti in pieno. Non lo so. Ma io continuo a tramandare quella musica alle nuove generazioni per renderli partecipi di un era irripetibile.
Parola di DJ SERVER.